Ashtanga Yoga e Iyengar Yoga: la complementarietà al di sopra delle differenze.

Nel precedente articolo abbiamo evocato il concetto di sadhana, il percorso nello yoga che coinvolge il praticante lungo tutta una vita con i suoi alti e bassi, con battute d’arresto e passi in avanti, con momenti di scoperta e momenti di sofferenza dinanzi ad ostacoli che qualche volta si presentano sotto forma di infortuni.

La maggior parte dei praticanti occidentali inizia il suo percorso a partire dallo studio di asana, il terzo dei rami proposti da Patanjali nel cammino dello yoga: yama e niyama, astensioni e prescrizioni, indicati negli Yoga Sutra come premesse al percorso, vengono spesso avvicinate dopo che il praticante si è appassionato allo studio di asana e sente il bisogno di entrare più in profondità in uno stile di vita yogico.

Il praticante quindi può avvicinarsi allo studio dello yoga inizialmente come pratica di movimento che offre benefici al corpo e che viene proposto, da alcune delle grandi scuole tradizionali, secondo un approccio più o meno dinamico.

Raccontando la mia esperienza, mi sono avvicinato alla pratica yoga nel 1998 attraverso il metodo Iyengar. A quell’epoca soffrivo di una grave forma di asma da allergia ed ero reduce da un’adolescenza scandita dai ricoveri in ospedale e da diagnosi che suonavano come sentenze definitive: avrei dovuto vivere con la bombola di ossigeno e costantemente sotto farmaci!

Un caro amico mi propose una lezione di Iyengar yoga e subito sperimentai un tale senso di apertura e di piacere del movimento, che mi resi conto che avrei potuto fare qualcosa per me stesso e la mia asma senza dover soccombere al destino che mi avevano prospettato. Da quel momento iniziai una pratica quotidiana, di pochissimi asana all’inizio, ma costante e nel corso di qualche anno i risultati furono visibili e potei diminuire la dose di farmaci fino ad eliminarli completamente.

Iniziai quindi un percorso nell’Iyengar Yoga come praticante che mi ha portato nel 2004 a diplomarmi insegnante nel metodo e a trasmettere lo yoga per molti anni seguendo questa didattica.

La didattica Iyengar yoga pone l’accento sulla ricerca dell’allineamento del corpo e lo studio delle posture in modo da permettere all’allievo di trovare l’azione corretta sulla colonna vertebrale come premessa di base ad un lavoro via via più profondo ed avanzato. Il respiro viene studiato attraverso le tecniche di pranayama che, a loro volta, partono dalla base delle aperture passive del torace, per creare le condizioni affinché la respirazione possa esprimersi nella sua pienezza successivamente, assisi nelle posizioni meditative.

Ad un certo punto del mio percorso la ricerca mi ha portato verso l’esplorazione del respiro come elemento inscindibile dal movimento, anzi come premessa e preparazione al movimento stesso: ho iniziato ad esplorare le potenzialità dell’Ashtanga Yoga e, un periodo di studio con Dona Holleman ha accelerato la trasformazione della mia pratica e del mio insegnamento, portandomi verso un nuovo percorso.

La pratica dell’Ashtanga Yoga parte da premesse didattiche diverse rispetto all’Iyengar Yoga: il fluire del movimento attraverso il respiro; il senso del ritmo che predomina sulla ricerca dell’allineamento posturale per favorire il riscaldamento del corpo e l’attivazione del processo di combustione, tapas, che purifica il corpo dalle impurità; l’apprendimento e l’approfondimento degli asana attraverso sequenze codificate.

In realtà, come gli allievi che frequentano i nostri corsi hanno potuto sperimentare, anche nella pratica dell’Ashtanga yoga il flusso deve essere supportato dall’attenzione alla tecnica di asana, per evitare di consumare il corpo con posture scorrette. Come abbiamo già evocato è facile nel disallineamento, stressare le articolazioni compromettendo, nel lungo periodo, la qualità e la longevità della pratica.

Per comprendere il diverso approccio delle due scuole, prendiamo come esempio utthita trikonasana come viene insegnata nella didattica Iyengar e nell’Ashtanga yoga.

Utthita trikonasana è una posizione estremamente complessa in quanto è la sintesi di molti movimenti che può fare il corpo nello spazio: movimento laterale, in torsione, in avanti e indietro.

Prashant Iyengar, figlio di B.K.S. Iyengar, ha dedicato a questa postura archetipica un intero libro per spiegare attraverso questa posizione, la complessità del rapporto con il movimento (Iyengar, Prashant, Alpha and Omega of Trikonasana, YOG, Mumbai 2004).

Infatti nell’Iyengar Yoga, didattica analitica, questo asana viene insegnato proprio per spiegare la mappa degli allineamenti e l’orientamento dei movimenti dal più grossolano al più sottile. Dall’analisi delle geometrie, giungiamo a cogliere un’azione sulla colonna vertebrale che privilegia l’estensione e l’apertura del torace. Questo è uno dei motivi per cui la presa non è all’alluce bensì alla tibia.

Nell’Ashtanga yoga, la posizione viene affrontata invece passando da un approccio analitico ad uno sintetico dove la mappa dei movimenti anatomici di asana viene colta e sintetizzata nella dinamica del respiro. Per ottenere la percezione e l’integrazione del respiro nel movimento, l’Ashtanga Yoga disegna, con la Prima Serie, una sequenza che privilegia la costruzione dei muscoli pelvici (bandha), elemento alla base di una esperienza del ritmo e della profondità respiratoria.

Utthita trikonasana viene compreso infatti “dinamicamente” all’interno di un mala insieme a parivritta trikonasana (o utthita trikonasana b), in quanto il fulcro motorio intorno al quale si costruiscono queste due posizioni è l’opposizione del bacino: in anteroversione in utthita trikonasana, con il busto in torsione concava e in retroversione in parivritta trikonasana, con il busto in torsione convessa. In utthita trikonasana, la pressione della base dell’alluce a terra e la presa dell’alluce con l’indice e il medio, contribuiscono a creare un movimento di ritorno verso il centro per consolidare la tenuta pelvica.

Se nell’Ashtanga Yoga sin da subito evochiamo la sincronia tra movimento e respiro come strumento per costruire la tenuta dei bandha, nella didattica Iyengar invece all’inizio non vengono fatti specifici riferimenti ai bandha i quali vengono coinvolti attraverso la percezione di una mappa di movimenti anatomici combinati tra loro nelle singole posizioni, per educare il corpo e la mente ad accogliere il flusso respiratorio.
La mia prima insegnante Iyengar mi aveva rivelato che il mio modo di praticare sarebbe cambiato dopo l’esperienza del pranayama perché avrei trovato, al di là di una ricerca analitica del movimento, la struttura di tutto nella percezione del respiro.

Osserviamo quindi come le due didattiche seguano percorsi diversi per giungere infine a determinare i parametri attraverso i quali si esprime l’esperienza di equilibrio yogico: l’Iyengar yoga parte dagli allineamenti per poi integrare l’ascolto mentre l’Ashtanga yoga parte dal senso del movimento e dal ritmo per poi integrare l’equilibrio di forze nell’allineamento funzionale.

È uscito di recente un articolo di un insegnante di yoga che, partendo dall’analisi di posture eseguite da Iyengar e da Patthabi Jois e Sharath Jois, applica schemi anatomici sulle loro foto e arriva a concludere che questi due stili di yoga non fanno bene al corpo perché non rispettano gli allineamenti funzionali a gestire la forza di gravità (www.yogapaoloproietti.com).

Pur trovando interessante lo schema anatomico utilizzato, non condivido però il suo procedere nella ricerca che, applicando uno schema al di fuori di un contesto didattico, crea una distorsione cognitiva, bias, che porta a conclusioni sommarie su due grandi discipline. Difficile immaginare la comprensione, e il giudizio, su didattiche così complesse e frutto di un lavoro di molti anni, a partire dall’applicazione di schemi anatomici tout court.
Ritengo sia estremamente difficile mettersi nell’impresa di valutare i percorsi di altri praticanti, sia perché i corpi sono diversi, sia perché è difficile dall’esterno avere la visione d’insieme delle tappe di un percorso e della strategia didattica che lo caratterizza.

Ogni percorso di yoga segue una logica di apprendimento che aiuta ad interpretare l’esperienza; la tecnica e il modo in cui si trasmette evolvono con la maturità del praticante nell’acquisire sensazioni.
Il proprio sadhana quindi, difficilmente sarà un percorso unidirezionale e senza ostacoli, bensì potrà partire da un presupposto didattico che verrà integrato nel tempo con altri principi, evolvendo sulla base del corpo e dell’esperienza del praticante.

Gian Renato Marchisio